Licenziamento disciplinare o Dimissioni volontarie? L'abuso del diritto per l'ottenimento della Naspi

 Il lavoratore dipendente assume il diritto di percepire il beneficio della NASPI (Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l'Impiego), ai sensi del D. lgs. 22 del 4 marzo 2015, laddove sussista uno stato di disoccupazione involontario patito dal soggetto e, si sia provveduto ad una contribuzione previdenziale di almeno 13 settimane negli ultimi 4 anni.

 

Tuttavia, con riguardo alla sussistenza di uno stato di disoccupazione involontario, le questioni interpretative ed applicative sorte in questi 7 anni di vigenza della norma in parola, sono state cospicue e spesso di non facile soluzione.

 

Ed infatti, la norma prevede che il lavoratore dipendente posso accedere al beneficio di cui si tratta, nel caso di un licenziamento disciplinare e ne sia invece escluso nei casi di dimissioni volontarie, vale a dire in caso di volontà unilaterale dello stesso di interrompere il rapporto con il proprio datore di lavoro.

 

Tale “opportunità” ha dato luogo, soprattutto nel corso degli ultimi anni, alla diffusione di un (mal) costume sempre più frequente, quale quello di porre in essere (gravi) comportamenti disciplinarmente rilevanti, per poter ottenere il conseguente licenziamento disciplinare e tutto ciò con il solo e precipuo scopo di conseguire il diritto alla NASPI.

 

Tra i comportamenti più in voga, c’è quello del rendersi assente ingiustificato per un prolungato periodo di tempo, fattispecie questa che, soprattutto se reiterata nel tempo, è disciplinarmente sanzionata, nella pressoché totalità dei contratti collettivi vigenti, con il licenziamento.

 

E’ appena il caso di segnalare che Il riconoscimento della NASPI a favore di un dipendente prevede a carico del datore di lavoro il pagamento di un contributo c.d. Ticket Naspi che, nel 2022, può arrivare fino a 1.360,77. Un elemento questo che appare, nella stragrande maggioranza dei casi, particolarmente sgradevole ed indigesto al malcapitato imprenditore di turno.

 

Il diffondersi di fattispecie come quella poc’anzi segnalata è tema che, sotto un profilo interpretativo giurisprudenziale, si intreccia con un altro complesso aspetto quale quello dell’abuso del diritto, concetto che – a differenza di altri ordinamenti europei – non espressamente normato nel nostro sistema legislativo.

 

E’ opinione comune che la condotta posta in essere da un soggetto è sicuramente censurabile laddove sia rilevato nell’animus operandi del dipendente, il fine di conseguire obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli per il quale il diritto è stato attribuito dall’ordinamento.

 

Ed in questo solco interpretativo si inserisce la sentenza del Tribunale di Udine n. 20/2022 del 27 maggio 2022 con la quale si è censurato il comportamento di un lavoratore dipendente che si era reso assente ingiustificato per un lungo periodo di tempo, di fatto “costringendo” il datore di lavoro a procedere con l’irrogazione di un licenziamento disciplinare, a valle del quale il lavoratore aveva poi presentato domanda per il percepimento della NASPI.

 

L’azienda, tuttavia, nell’effettuare le comunicazioni agli enti preposti, si era determinata a qualificare il recesso del rapporto di lavoro come conseguenza di dimissioni volontarie e non come licenziamento. Tale decisione operativa del datore di lavoro ha fatto sì che il dipendente abbia visto respingersi la propria domanda di ammissione all’ammortizzatore sociale in parola.

 

Il Tribunale di Udine, nella ricostruzione dei fatti e nell’applicazione delle norme ha ritenuto corretto il comportamento dell’azienda riconoscendo – anche in esito alla copiosa istruttoria svolta e a quanto riferito dal lavoratore nell’interrogatorio libero dello stesso – la volontà chiara di cessare il rapporto di lavoro.

 

Elemento questo che ha indotto il giudicante a ritenere del tutto equiparabile il comportamento del lavoratore a quella delle dimissioni di fatto, a nulla rilevando che la procedura esclusiva prevista per la comunicazione delle dimissioni sia quella telematica ai sensi dall’art. 26 D. Lgs. 151/2015.

 

L’opera interpretativa ed applicativa esercitata dal giudice friulano ha quindi preso le mosse dalle norme previste dagli art. 2118 e 2119 del codice civile, la cui lettera prevede che per recedere dal contratto di lavoro sia sufficiente una manifestazione della volontà, desumibile quindi anche dai comportamenti.

 

Tale norma, ha affermato il giudice di Udine, non è stata neppure parzialmente abrogata dal citato D. lgs 151/2015, che si è occupato di inserire procedure operative e non già di rivedere e modificare principi di diritto ad oggi ancora pienamente vigenti, quali quelli della libera recedibilità dal rapporto di lavoro, anche per fatti concludenti.

 

Il giudicante ha quindi concluso qualificando il comportamento del lavoratore come inteso a sollecitare strumentalmente – e quindi abusivamente – il proprio licenziamento e, di fatto, dando luogo a favore del licenziato, ad un esborso di provvidenze pubbliche per la tutela di un fittizio stato di disoccupazione, in realtà costituente l’esito di una scelta libera ed in alcun modo involontariamente subita dall’ex dipendente.

 

Non resta che attendere, sul punto, le pronunce della Suprema Corte di Cassazione che, con ogni probabilità, verrà presto interessata dal tema.