Riflessioni e strategie per il "Next Normal": il diritto "al lavoro", il terzo settore e...

Pubblichiamo qui di seguito un intervento del dott. Luigi Falchetti, nostro “of Counsel”, sul tema del c.d. “next normal” tra diritto “al lavoro” e terzo settore.

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“Sembra ormai assodato che uno degli effetti del COVID-19 è - e sarà - il più grande shock economico occorso dalla Seconda guerra mondiale ad oggi.

E’ - e sarà - non solo uno shock economico, ma anche un epocale cambiamento per i comportamenti individuali e, quindi, per i modelli di business.

Una prima considerazione ipotizzabile è quella che sarà necessario introiettare la consapevolezza che le future sfide saranno di un ordine di grandezza mai sperimentato prima e che, per molti mesi, dovremo convivere in una situazione di incertezza, opacità e nebbia.

C’è il fondato rischio che diventeremo più guardinghi nelle relazioni con il nostro prossimo, certamente con quello meno prossimo, e molto più selettivi nella scelta delle offerte che ci perverranno dai mercati. 

Dico “molti mesi” perché sono convinto che nessun next normal potrà mai verificarsi in assenza di un vaccino e/o di una cura efficaci contro il Covid 19.

Dato questo quadro di riferimento, ci sono alcuni spunti di riflessione che, una volta approfonditi singolarmente da ciascuno di noi ed in relazione alle nostre rispettive esigenze sociali ed economiche, potrebbero indurci a guardare al futuro con minore ansietà ed incertezza.

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1) Una crisi asimmetrica

E’ opinione comune ormai quella che vede la crisi da Covid 19 come una crisi asimmetrica ed extra economica: prima del coronavirus, in linea generale, sussisteva una selezione darwiniana in base alla quale soccombevano le aziende più deboli; ora – e nel breve/medio periodo – assisteremo alla scomparsa di aziende che non sono le più deboli, non scontano errori manageriali, non sono state spazzate via da incendi o terremoti. 

Oggi la linea di demarcazione tra le aziende che, sia pure con fatica, continueranno la loro attività e quelle che, al contrario, saranno costrette ad abbandonare il campo di gioco è rappresentata dai rispettivi presupposti organizzativi.

Le aziende che non possono vivere senza assembramento sociale (turismo, ristorazione, spettacolo, ecc.) sono le più esposte all’asfissia finanziaria e, quindi, alla loro eclissi; le altre, se saranno pronte a modificare sé stesse e le proprie offerte, avranno maggiori chances di sopravvivenza.

Paradossalmente, l’argomentazione di cui sopra, da una parte, assolve per non aver commesso il fatto le aziende situate nella parte sbagliata della predetta linea di demarcazione e, dall’altra, fornisce alle altre aziende più fortunate un rimarchevole elemento di spinta propulsiva a cogliere l’attimo ed a ripensare all’inevitabile e potente modificazione della loro strategia organizzativa, produttiva, di marketing e, soprattutto, di relazioni interne.

Si pensi, ad esempio:

  • all’obbligatorietà di un processo decisionale sempre più veloce, anche in considerazione della consapevolezza dell’elevato grado di incertezza che aiuterà a ridurre drasticamente la paura di sbagliare;

  • alla tendenza ad una sempre maggiore digitalizzazione delle attività;

  • a nuove configurazioni relazionali, sia con i lavoratori che con i loro rappresentanti sindacali, basate su empatia e capacità di ascolto;

  • ad una sempre più spinta specializzazione dei manager aziendali, siano essi dipendenti che consulenti esterni ingaggiati alla bisogna (con minori oneri complessivi rispetto ai primi), per la risoluzione di specifiche problematiche risolte le quali il rapporto consulenziale può interrompersi senza ulteriori problemi;

  • all’ormai condivisa idea di un imminente processo di de-globalizzazione dell’economia che indurrà i futuri Piani Industriali governativi a disincentivare con determinazione l’affidamento all’estero di intere produzioni di beni e che, di conseguenza, farà emergere la convenienza, per le aziende tutte, a far rientrare nel Paese lavorazioni prima de-localizzate;

  • all’inevitabile maggiore presenza dello Stato nell’economia e della maggiore propensione all’investimento da parte di società di private equity: se ben ideate e meglio condotte, queste iniziative potrebbero rivelarsi di grande aiuto per le società che ne saranno interessate.

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2) Il Diritto “al Lavoro”

Alcune ulteriori valutazioni che in questo contesto economico-sociale si rendono necessarie, riguardano gli aspetti giuslavoristici. 

  • La prima, a valenza generale, riguarda il curioso fatto che il “diritto al lavoro” – anche costituzionalmente garantito - è uno dei pochi diritti, se non l’unico, a non avere un corrispettivo “obbligo ad intraprendere” da parte di potenziali datori di lavoro.

    L’imprenditore infatti non ha l’obbligo di fare impresa, ma ne ha solo la possibilità, a suo insindacabile giudizio in merito alla presenza o meno delle condizioni esogene ed endogene necessarie e sufficienti ad ipotizzare la giusta remunerazione del suo investimento. Questa considerazione, nei futuri rapporti tra la parte datoriale e la parte dei prestatori d’opera, potrebbe rivelarsi un fattore positivo nella ricerca e nell’adozione di nuove relazioni industriali;

  • La seconda, di carattere particolare – ma molto attuale visti i protocolli sulla sicurezza dei lavoratori e dei clienti che sono stati recentemente sottoscritti in vista della c.d. “ripartenza” della produzione – riguarda la responsabilità dell’imprenditore così come fissata dall’art. 2087 c.c., che così recita: << L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. >>

    Tale prescrizione configura l’ipotesi di responsabilità oggettiva in capo al datore di lavoro? La risposta a questa domanda – considerando che il datore di lavoro deve rispettare, non solo le tassative misure imposte dalla legge e quelle dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre che nella fattualità si rendano necessarie per la tutela dei prestatori d’opera in base all’esperienza ed alla tecnica – non può che essere ammantata di grande incertezza.

Tuttavia ciò potrebbe non essere sufficiente se, per ipotesi, di due soggetti imprenditoriali, uno si attenga scrupolosamente a tutte le indicazioni normative previste dalle leggi di settore ed un secondo soggetto - analogo per categoria, dimensioni e numero di dipendenti - individui un ulteriore punto di tutela del lavoratore, oltre le prescrizioni normative.

Potrebbe il primo essere chiamato a rispondere per non aver adottato tutti gli accorgimenti necessari, nel caso specifico da quegli accorgimenti adottati da un “collega" imprenditore più virtuoso?

D’altra parte, si sostiene invece che non è configurabile un’ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro in quanto non si può desumere, sempre e dovunque, una prescrizione così ampia da rispettare ogni cautela umanamente possibile, diretta ad evitare qualsiasi danno umanamente ipotizzabile.

In altri termini, il datore di lavoro non può essere chiamato a garantire un ambiente di lavoro a “rischio zero”, in ogni luogo ed in ogni tempo della sua attività imprenditoriale.

Una riformulazione chiarificatrice del citato art. 2087 c.c. sarebbe la benvenuta.

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3) Il terzo settore

Infine, vorrei fare un cenno in merito agli Enti del Terzo Settore che un po’ conosco in quanto, da alcuni anni, svolgo opera di volontariato presso un ETS a valenza nazionale e con numerose propaggini territoriali.

Anche questi Enti non potranno sfuggire agli effetti sconvolgenti che si stanno manifestando nell’intero mondo dell’economia.

Anzi - proprio forse a causa della loro genesi caratterizzata da profondi motivi etico/sociali, di sostegno finanziario alla ricerca scientifica per sempre nuove cure in grado di sconfiggere le patologie di rispettivo interesse e di supporto al miglioramento della qualità di vita delle persone colpite dalla patologia, distanziandosi, nella loro strategia organizzativa e nella scelta delle loro priorità, quanto più possibile dalle Aziende profit – gli Enti del Terzo Settore potrebbero incontrare maggiori difficoltà a reinventare se stessi e rischiare di soffrire troppo della sindrome del “cervo nei fari”, emblema della paralisi da imprevedibilità dell’imminente futuro.

A mio parere, questi Enti dovranno imporsi una profonda modifica culturale basata sullo sviluppo informatico e digitale e, quindi, su nuovi criteri e modalità di raccolta fondi, attività, quest’ultima, imprescindibile per il raggiungimento di qualunque obiettivo economico e/o di advocacy ed anch’essa da ripensare in termini informatici e con un sempre più spinto ridimensionamento dei rapporti in presenza.

Forse non è stato ancora del tutto digerito il concetto che vedere se stessi solo come Enti no profit, rispettosi di severi protocolli etici, basati anche sul vasto aiuto sin qui assicurato dal volontariato, quasi sdegnosi quando si deve parlare di denaro, non ha consentito di raggiungere risultati ancora più consistenti di quelli, peraltro comunque rimarchevoli, già raggiunti.

Insomma, si poteva fare di più se solo si fosse considerato che perseguire il profitto non è peccato; il modo con cui questo profitto è perseguito e la destinazione che se ne fa può essere non solo peccato ma, addirittura, configurare un crimine.

Qualche segnale di cambiamento mi sembra di poterlo già notare.”

 

Roma 7 maggio 2020

Dott. Luigi Falchetti